giovedì 9 agosto 2012

Gli Americani e l'organizzazione


All’arrivo a New York, dopo esser tutti scesi dall’aereo, dopo esser stati stivati nelle navette aeroportuali e scarrozzati per le vie misteriose dell’aeroporto – tutti lì a guardare dai finestrini con le facce peste di un volo di nove ore alle spalle, a cui si mescolava in alcuni il sollievo di essere tornati a casa, in altri lo smarrimento di chi si trovava Dio solo sa dove – siamo finalmente stati scaricati al terminal. E poi mollati un po’ lì, diciamolo. Sarà pure che il nuovo terminal della Delta era in costruzione, ma fatto sta che ci hanno indirizzato come una mandria di bestiame in un corridoio completamente spoglio e privo di qualunque indicazione, fino a uno stop al quale ci siamo dovuti fermare. Siamo rimasti lì ad aspettare, senza che nessuno ci dicesse nulla. Per di più faceva un caldo infernale, mitigato solo da un ventilatore gigante che sparava un vento torrido solo su quei pochi, non so se più fortunati o disgraziati, che gli stavano direttamente di fronte. La situazione surreale ha sciolto le inibizioni, e tutti si è cominciato a chiacchierare. E a quel punto anche i disorientati italiani, che a lamentarsi di disfunzioni del genere sono abituati, si sono di colpo sentiti a casa.
Io avevo accanto una signora americana, che però spiccicava anche qualche parola d’italiano. E un po’ in una lingua, un po’ nell’altra, si lamentava con me della mancanza di informazioni. Io annuivo e sorridevo, finché lei non se ne è uscita con un commento proprio sul fatto che stavo sorridendo. Le rispondo che arrabbiarsi è inutile e bisogna rimanere positivi, ma in realtà sorridevo un po’ perché lei mi faceva tenerezza, un po’ perché, non appena toccato il suolo americano, mi pareva di aver subito trovato una piccola falla nel sistema. Voglio dire, situazioni così ce le immaginiamo da noi, non da loro. Ma magari, mi dico, è stato un caso.
E invece, passano appena un paio di giorni ed ecco un altro episodio simile. All’ingresso del MoMA è obbligatorio consegnare le borse al guardaroba. Ma se questo primo passaggio nel mio caso si è svolto in tempi ragionevolmente rapidi, per recuperare lo zaino all’uscita ho atteso in coda per più di mezz’ora, nonostante gli sforzi di un simpatico inserviente che si tentava di dirigere il traffico fra le due file contrapposte di chi voleva lasciare il bagaglio e chi ritirarlo, che finivano inevitabilmente per scontrarsi e confondersi in un’unica massa informe. Il signore americano davanti a me comincia a lamentarsi per l’attesa, e commenta che tutto il servizio è organizzato in maniera demenziale. Io annuisco convintamene, e lui è contento.

Se c’è qualcosa che mi pare di aver capito è che il rapporto fra gli americani e l’organizzazione non è idilliaco come ce lo si potrebbe aspettare. Gli americani non sono come i giapponesi, che hanno regole e organizzazione impressi nei circuiti neuronali fin dalla nascita. Non sono neanche come noi italiani, per i quali le regole sono al più suggerimenti e le cui capacità organizzative, che in linea di principio non ci mancano, decadono in modo inversamente proporzionale alle dimensioni dell’organizzazione. Gli americani, invece, semplicemente badano al sodo. Quello che interessa loro è il risultato, il resto sono fronzoli. Riconoscono il valore delle regole e le seguono, se queste servono allo scopo, altrimenti le ignorano appellandosi a un superiore, personale buonsenso. Prendiamo ad esempio il comportamento dei pedoni in strada. A prima vista sembra di essere in Italia, con tutti che attraversano tranquillamente con il rosso. Ma in realtà è diverso: noi, semplicemente, ce ne sbattiamo. Loro no, non se ne sbattono. All’occorrenza il divieto lo rispettano, quando serve. Ma se si ha di fronte il rosso, e però non sta arrivando nessuna macchina, ecco che la regola perde di colpo la sua utilità, e a quel punto il buon americano si sente nel più totale diritto di infrangerla e attraversare. E l’ho visto fare anche di fronte a un poliziotto, che a sua volta mai si sognerebbe di mettere in discussione il sacrosanto diritto del passante ad attraversare nel modo più efficiente possibile. Siamo in America, che diamine. E dopo tutto non stava arrivando nessuno. Una variante di questa regola, per inciso, vale anche per le automobili, che, se la strada è libera, possono girare a destra anche se il semaforo è rosso.
Questo sistema flessibile permette e tollera sorprendenti sacche di inefficienza; ma nondimeno, quando intorno allo scopo da raggiungere si coalizza la volontà collettiva (di solito indirizzata tramite il patriottismo) rende possibili exploit fenomenali.

Detto tutto questo, pur nell’ammirazione sincera che provo per questo lato del carattere americano, qualcuno mi dovrebbe spiegare perché mai non distinguere i cancelli di ingresso da quelli di uscita nella metropolitana dovrebbe essere una buona idea. All’ora di punta, altro che la fila al guardaroba al MoMA.

1 commento:

  1. Il buon senso sarebbe l'optimum se tutti lo avessero!Mi fa piacere comunque sentire che non siamo solo noi Italiani a mancare nell'organizzazione.Certamente,quanto a patriottismo,in Italia ce n'è poco;in compenso c'è molto individualismo.

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