giovedì 16 agosto 2012

L’America e me, parte 3: l’arte


E qui mi riferisco soprattutto alle arti visive, ed è un aspetto che mi tolgo subito perché ha ancora a che fare con New York.
È noto che col dopoguerra gli Stati Uniti, fino ad allora una cultura in senso tecnico provinciale, hanno finalmente espresso la prima tendenza completamente autoctona e rilevante nel panorama mondiale, ovvero l’espressionismo astratto di Pollock, Rothko, De Kooning e compagnia. E fin qui niente da dire, visto che sono il primo a considerare Pollock un maestro. È anche noto che da allora hanno continuato ad esprimere contenuti originali, come la Pop Art e alcuni dei più vigorosi sacerdoti del concettuale. Ma è anche vero, anche se magari non altrettanto noto, che New York ha soppiantato Parigi come capitale mondiale delle arti visive solo quando, passata la sbornia concettuale degli anni settanta (che nelle condizioni di oggi non potrebbe più ripetersi), gli operatori di mercato, in primo luogo i galleristi, hanno deciso che quello dell’arte era, appunto, solo un mercato, e come tale andava trattato. E muovendosi di concerto, coscientemente, hanno creato SoHo, il quartiere dell’arte, capace di fare massa critica e di attrarre con la sua sola esistenza un flusso di operatori e artisti che l’ha reso insostituibile crocevia dell’arte globalizzata. Col crescere degli affitti il quartiere si è già spostato un paio di volte, prima a Chelsea e poi, pare, a Brooklyn, ma il concetto è sempre lo stesso.
Il sistema segue criteri puramente mercantilistici. A fronte di una creatività giovanile che viene comunque incentivata a tutti i livelli, chi decide quali saranno le nuove tendenze sono in definitiva i galleristi. In questo processo di culturale rimane poco o nulla, con anche le figure dei critici ormai relegate in secondo piano. E così si creano fenomeni effimeri che non durano lo spazio di un mattino, e difatti è almeno dagli anni ottanta che le arti visive, in preda a un processo di frammentazione inarrestabile, non hanno espresso più nulla di davvero rilevante. Le pacchianate neo-pop di Koons, se mai hanno avuto un qualche valore, lo hanno avuto in quanto simbolo di un’epoca effimera, e quindi sono un fenomeno più sociologico che artistico; i graffitisti alla Basquiat non se li fila giustamente più nessuno, e anche Haring ha avuto soprattutto il merito di creare un segno riconoscibile e “spendibile”; alcuni cosiddetti “maestri” americani, come Robert Rauschenberg e Jasper Johns non mi dicono poi gran che, mentre altri che trovo vagamente più interessanti, come Cy Twombly, sono europei per formazione o vocazione. Americani a parte, anche artisti di altre nazioni possono entrare in questo circuito di arte-prodotto incentrato su New York, basti solo pensare al nostro fuffosissimo movimento della transavanguardia, o a fenomeni come Damien Hirst o Maurizio Cattelan, che alla fine si sono rivelati solo dei sensazionalisti/barra/provocatori.
Di questo sistema noi, a distanza, vediamo dei riflessi, come ad esempio la gloriosa Biennale di Venezia, che per quanto rimanga un appuntamento divertentissimo, è palesemente una specie di parco a tema dell’arte, una fiera che a base di novità, banalità e provocazioni è perfetta per far sentire intelligente la borghesia facoltosa che poi le opere le deve comprare.
Insomma, l’attuale sistema delle arti, incentrato su New York e a totale vocazione mercantile, a me non piace. Che fosse in funzione lo si sapeva, ma vederlo in azione dal vivo, per quanto si apprezzi la vitalità di fondo della scena americana e si riconosca che in giro – ci mancherebbe – si vede anche della bella roba, non fa che aumentare la depressione.


2 commenti:

  1. Se questa nuova arte è tutta come il quadro che mostri,non mi dice proprio nulla.Mi stupisce che ci sia chi compra. Oggi sono a Lucca;sono tornata da Gualdo stamani e domattina ripartirò per Gello.Devo mettere il gas alla macchina,perchè sono arrivata a 300km.

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  2. Ammazza, stai guidando un sacco. Bene!

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