martedì 28 agosto 2012

L’America e me, parte 6: i fumetti


Visto che siamo in tema nerd, non posso esimermi dall’affrontare brevemente anche questo aspetto. Il mio rapporto col fumetto americano è ambivalente. Distinguo tre filoni: le strisce, i comic book della major, le graphic novel.

Sul primo fronte, niente da dire. Senza stare a citarle tutte, sono tantissime le strisce, vecchie e nuove, che per me sono state importanti: i Peanuts, Calvin & Hobbes, Pogo, Doonesbury, Dilbert, Wizard of Id. Oserei dire che la striscia è la forma di fumetto più genuinamente americana, legata al boom della stampa quotidiana di cui il buon William Randolph Hearst, di cui ho già parlato, è stato uno dei più discussi campioni. Per inciso, pare che lui fosse un appassionato e che abbia supportato strisce oggi considerate classiche ma all’epoca non proprio popolarissime fra il pubblico di lettori, come il Krazy Kat di Herriman.
Una menzione particolare se la merita il Mickey Mouse di Gottfredson, quello degli anni trenta: non solo una striscia che mescola in modo magistrale avventura e umorismo, ma la più perfetta incarnazione della parte migliore dello spirito americano: intraprendente, generoso, ottimista nonostante tutto, e nonostante la depressione che in quegli anni devastava la vita reale di milioni di persone. Gli anni trenta, ormai si sarà capito, sono un periodo della storia americana che amo particolarmente, più dei “ruggenti anni venti” che li hanno preceduti. Sarà che la depressione fa da contraltare con il necessario lato oscuro, ma quelli sono stati gli anni d’oro di Hollywood, con l’avvento del sonoro e i grandi divi, gli anni d’oro del fumetto avventuroso, gli anni dell’art deco, gli anni dei primi, titanici grattacieli. Topolino, quel Topolino, ancora a metà fra mondo rurale e grande metropoli, è l’incarnazione perfetta di tutto questo. E rimane una fedele cartina di tornasole della società americana anche dopo, nel successivo imborghesimento.

Parlare di comic book significa parlare di supereroi, e devo dire che con loro ho sempre avuto un rapporto controverso, non perché li considerassi improbabili, ma perché, fin da ragazzino, mal sopportavo il concetto di continuity. Poi intendiamoci, i fondamentali li ho letti e ci sono alcune versioni adulte di personaggi come Batman alle quali sono particolarmente affezionato. Ma qui sconfiniamo nella categoria delle graphic novel, mentre confesso senza problemi di non essere mai stato un appassionato lettore di fumetto seriale americano. Escludendo, e lo infilo qui anche se non sono supereroi, quella straordinaria commedia umana che sono stati i paperi di Barks.

Sulle graphic novel, ammiro moltissimo Eisner e non discuto il suo ruolo storico fondamentale, ma come narratore non l'ho amato altrettanto. Ho amato invece Spiegelman, Miller al suo meglio, Chadwick, i fratelli Hernandez, soprattutto Gilbert. Poi ci sarebbero gli europei, soprattutto inglesi, che il fumetto americano ha adottato, come Moore e Gaiman. Ma l’obiettivo qui era raccontare in breve il mio personale rapporto con il fumetto americano, non scrivere un trattato.

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