E infine ci siamo. America, questo è quel che ti dovevo, questo è quel che hai avuto. Il conto in sospeso è saldato. Non c’è alcun bilancio complessivo da trarre, al di là di tutto quello che ho scritto fin qui. È stato un viaggio lungo e insieme brevissimo, impegnativo sia fisicamente che mentalmente. Ma è stato un viaggio pieno di stimoli, e questo mi basta. Se tornerò, e spero di sì, sarà perché qui avrò qualcosa da fare, non più come turista.
sabato 1 settembre 2012
Il cuore del sistema
Disneyland. Non poteva finire che qui.
Che si ceda o meno al fascino del mondo fantastico creato da Walt Disney (io dopo un paio d’ore di stupore ho cominciato ad avvertire una certa nausea, come dopo un’indigestione di zucchero filato), è innegabile che il parco vada visto. Nel Paese in cui tutto si qualifica per la sua dimensione “di massa”, Disneyland è l’apoteosi del concetto di divertimento massificato, offerto indistintamente a tutti, grandi e piccini, uomini e donne, ricchi e poveri. A Disneyland, il luogo più felice della terra, la felicità è un obbligo.
Disneyland non è soltanto una raccolta di attrazioni, una specie di grande luna park. Disneyland è un mondo, curato in ogni minimo dettaglio. Una volta entrati, è impossibile girare lo sguardo in una qualsiasi direzione senza imbattersi in un’attrazione, in una scenografia, in uno dei centinaia di addetti, figuranti o meno, che sono lì con l’unico obiettivo di rendere piacevole la tua visita. Perché problemi e disagi, per quanto minimi, non appartengono al mondo perfetto del parco. Disneyland non vuole tanto che tu partecipi, vuole che tu ci creda. Un unico biglietto, pagato il quale puoi fare tutto quello che vuoi; tantissime cose da fare e da vedere; una gestione intelligente delle file, che ti permette di prenotare il tuo posto e di tornare a colpo sicuro; un gran numero di occasioni d’acquisto supplementari (cibo e bevande, souvenir, gadget a tema di tutti i tipi); strutture ricettive faraoniche, di livello aeroportuale; un tram che a ciclo continuo ti porta dai parcheggi all’ingresso del parco e viceversa; addirittura i parcheggi per i passeggini ad ogni attrazione, sorvegliati da appositi addetti. E se non ce l’hai, il passeggino, e ne hai bisogno, te lo danno loro.
Il parco è diviso in aree tematiche, in modo che ognuno può trovare quello che fa per lui. Le attrazioni principali sono invariabilmente delle specie di montagne russe o dei tour virtuali interattivi, ma niente di troppo estremo, che devono piacere a tutti. Quello che perdono in adrenalina lo recuperano nella cura dell’ambientazione e negli effetti speciali, per cui l’attrazione dedicata a Indiana Jones o quella di Guerre Stellari diventano delle esperienze indimenticabili. Almeno in teoria, che io dopo un po’ ho cominciato a confondere tutto.
Disneyland è la perfetta incarnazione dell’ideologia popolaresca di Walt Disney, che non è mai stato un artista ma piuttosto un grande impresario, una specie di Barnum del cinema. Col suo politicamente corretto ante litteram, con la sua continua ricerca del minimo comune denominatore, col suo pragmatismo da imprenditore e la sua capacità di pensare in grande, Disney è stato uno dei grandi interpreti dello spirito americano. Venire qui e non visitare Disneyland, che il parco piaccia o meno, significa privarsi di una delle incarnazioni più pure di quello spirito, di una chiave di lettura quasi indispensabile.
Che si ceda o meno al fascino del mondo fantastico creato da Walt Disney (io dopo un paio d’ore di stupore ho cominciato ad avvertire una certa nausea, come dopo un’indigestione di zucchero filato), è innegabile che il parco vada visto. Nel Paese in cui tutto si qualifica per la sua dimensione “di massa”, Disneyland è l’apoteosi del concetto di divertimento massificato, offerto indistintamente a tutti, grandi e piccini, uomini e donne, ricchi e poveri. A Disneyland, il luogo più felice della terra, la felicità è un obbligo.
Disneyland non è soltanto una raccolta di attrazioni, una specie di grande luna park. Disneyland è un mondo, curato in ogni minimo dettaglio. Una volta entrati, è impossibile girare lo sguardo in una qualsiasi direzione senza imbattersi in un’attrazione, in una scenografia, in uno dei centinaia di addetti, figuranti o meno, che sono lì con l’unico obiettivo di rendere piacevole la tua visita. Perché problemi e disagi, per quanto minimi, non appartengono al mondo perfetto del parco. Disneyland non vuole tanto che tu partecipi, vuole che tu ci creda. Un unico biglietto, pagato il quale puoi fare tutto quello che vuoi; tantissime cose da fare e da vedere; una gestione intelligente delle file, che ti permette di prenotare il tuo posto e di tornare a colpo sicuro; un gran numero di occasioni d’acquisto supplementari (cibo e bevande, souvenir, gadget a tema di tutti i tipi); strutture ricettive faraoniche, di livello aeroportuale; un tram che a ciclo continuo ti porta dai parcheggi all’ingresso del parco e viceversa; addirittura i parcheggi per i passeggini ad ogni attrazione, sorvegliati da appositi addetti. E se non ce l’hai, il passeggino, e ne hai bisogno, te lo danno loro.
Il parco è diviso in aree tematiche, in modo che ognuno può trovare quello che fa per lui. Le attrazioni principali sono invariabilmente delle specie di montagne russe o dei tour virtuali interattivi, ma niente di troppo estremo, che devono piacere a tutti. Quello che perdono in adrenalina lo recuperano nella cura dell’ambientazione e negli effetti speciali, per cui l’attrazione dedicata a Indiana Jones o quella di Guerre Stellari diventano delle esperienze indimenticabili. Almeno in teoria, che io dopo un po’ ho cominciato a confondere tutto.
Disneyland è la perfetta incarnazione dell’ideologia popolaresca di Walt Disney, che non è mai stato un artista ma piuttosto un grande impresario, una specie di Barnum del cinema. Col suo politicamente corretto ante litteram, con la sua continua ricerca del minimo comune denominatore, col suo pragmatismo da imprenditore e la sua capacità di pensare in grande, Disney è stato uno dei grandi interpreti dello spirito americano. Venire qui e non visitare Disneyland, che il parco piaccia o meno, significa privarsi di una delle incarnazioni più pure di quello spirito, di una chiave di lettura quasi indispensabile.
L’America e me, parte 8: il cinema e il mito americano
Il cinema l’ho tenuto appositamente per ultimo, perché qui il discorso si fa complesso e ci sono vari aspetti da considerare. In primo luogo c’è il mio rapporto personale col cinema americano. C’è poco da fare: tutti noi, in tutto il mondo occidentale, da più di mezzo secolo siamo esposti in modo importante al cinema americano. Per me non è stato diverso. I cartoni Disney, da bambino; da ragazzino, che per me ha coinciso con il periodo a cavallo fra i settanta e gli ottanta, il cinema della “nuova Hollywood”, in gran parte a misura di adolescente: Spielberg e i suoi adepti (Zemeckis, Dante e parecchi altri minori), Lucas con la saga di Guerre Stellari, Landis prima che si rincoglionisse, tutta la scena fanta-horror, dominata dalla figura gigantesca di John Carpenter. Agli ottanta dominati dallo spielberghismo sono seguiti i novanta del cinema più muscolare di James Cameron e dei suoi adepti, i vari McTiernan, Bigelow e compagnia. E i duemila, sempre più frammentati e in cui, oltre all’individuazione sempre più marcata del pubblico di teenager come target principale, si è assistito al proliferare del fenomeno di remake e reboot, quasi che le buone idee fossero esaurite e si sentisse il bisogno di puntare sul sicuro.
Parallelamente a queste tendenze mainstream, per me ci sono stati la scoperta dei grandi autori e l’approfondimento del cinema americano del passato. Sul fronte autori, in primo luogo il grande filone italoamericano: Scorsese, Coppola, Cimino, De Palma; Kubrick, ovviamente, anche se lui si è sempre dichiarato di formazione e cultura europee; e poi, andando avanti, Eastwood, Mann, Burton prima che diventasse uno stanco clone di se stesso, Tarantino fino a Pulp Fiction. E di sicuro dimentico qualcuno di importante.
Anche nel cinema, come in quasi tutti i campi, c’è il fenomeno dei registi europei che hanno trovato in America la loro patria d’adozione, e cito solo Ridley Scott come esempio emblematico. La questione immigrazione si intreccia inestricabilmente anche a quella del cinema americano del passato, che nel periodo fra le due guerre ha visto una fortissima iniezione di autori provenienti dall’Europa: sto parlando di gente del calibro di Wilder, Lang, Von Stroheim, Lubitsch, Hitchcock.
Parlando di americani autoctoni, i nomi sono quelli di Capra, Ford, Hawks, Chaplin e innumerevoli altri. E buttando lì, oltre ai nomi, anche qualche tendenza tematica, cito con affetto la grande stagione del fantastico Universal negli anni trenta, il noir degli anni quaranta, la commedia sofisticata e la fantascienza degli anni cinquanta.
Insomma, c’è molto cinema americano nella mia formazione. Ma fortunatamente non è mai stato il solo, e forse neanche il principale, sempre controbilanciato da altre cinematografie e in particolare da quella italiana, che fino agli anni settanta non ha avuto (ahimé, adesso sì) niente da invidiare a nessuno. E questo, per quel che riguarda me, è più o meno quanto.
C’è poi la grande questione del mito americano. Uno dei più grandi successi del cinema a stelle e strisce, sociale e “politico” prima che artistico, è stato quello di aver imposto gli Stati Uniti come luogo privilegiato dell’immaginario. I dischi volanti non atterrerebbero mai a Lucca, dissero a suo tempo Fruttero e Lucentini; ma la verità è che ormai fatichiamo ad immaginarci qualunque tipo di storia che non sia ambientata in un’America immaginaria in cui tutto può accadere. New York, in particolare, è diventata lo scenario ideale, quasi uno sfondo neutro, in cui poter ambientare di tutto.
Per spiegare il ruolo assunto dell’America nell’immaginario collettivo, oltre alla pervasività della sua industria culturale, ci sono ovviamente anche buone ragioni di carattere storico, nel senso che è dalla seconda guerra mondiale che gli Stati Uniti hanno assunto un ruolo dominante nella storia del mondo. Tutto ciò che di importante è successo da allora riguarda o coinvolge in qualche modo gli Stati Uniti, ed è normale che questo si rifletta nell’immaginario.
C’è però una questione più generale, che riguarda la sospensione dell’incredulità nell’utilizzo di luoghi reali in ambito fiction.
Comincio con un esempio. Abituato come sono al contesto di una piccola città come Lucca, avrei difficoltà ad accettare una storia di fantasia, non necessariamente fantastica, ambientata lì. Perché mi sarebbe difficile scacciare l’impressione di “falsità”, come mi è successo nel caso del recente film di Pieraccioni. La storia sarebbe senz’altro più accettabile per gli altri italiani, ma probabilmente solo fino a un certo punto.
Perché un luogo reale si presti alla fiction è necessario che presenti dei “vuoti”, degli spazi ignoti da poter riempire con la fantasia, restando tuttavia perfettamente credibile. Per la sua stessa estensione, il continente americano si presta perfettamente a questo meccanismo. È facile immaginarci città fittizie, e crederci. Lo stesso vale per le megalopoli, New York in testa, i cui “spazi ignoti” sono direttamente proporzionali alle loro dimensioni. E tuttavia, anche tenendo conto di tutto questo, gli americani si sono abituati a un livello di “fictionalizzazione” dei loro luoghi che a prima vista sembrerebbe difficilmente accettabile. Presidenti immaginari (ve lo immaginereste da noi?), città devastate in ogni modo possibile, situazioni chiaramente irreali calate in contesti reali. Sarà che la loro visione del loro Paese è in qualche modo mitica, come già si diceva parlando di politica. Sarà che davvero credono che in America tutto sia possibile, fosse solo per il loro attuale ruolo storico. Sarà anche che fatti tragici come l’undici settembre, che se fosse stato immaginato in un film sarebbe stato considerato l’ennesima “americanata”, li confermano in questa convinzione. Sarà magari solo che si sono semplicemente abituati. Paradossalmente, sembra che i film americani siano quasi pensati più per noi che per loro, visto che per noi il “vuoto” da riempire è molto più grande. E se è vero che la loro visione del loro Paese è mitica, una parte di quel mito sono riusciti ad instillarla anche a noi. Tanto di cappello.
Quando ho visto dal vivo il folle agglomerato di torri a New York mi è stato facile capire come Stan Lee si sia potuto immaginare un personaggio come l’Uomo Ragno. Ma proprio vedendolo di persona è emersa lampante l’irrealtà del tutto, non tanto perché sia impossibile immaginarsi un supereroe che penzola con una ragnatela da un grattacielo all’altro, ma perché, se anche fosse, si muoverebbe agevolmente solo in un paio di zone di Manhattan, mentre per il resto dovrebbe prendere la metro come tutti. Visti dal vivo, questi luoghi mitizzati da decenni di fiction si sono rivelati luoghi reali, e, di conseguenza, normali. Non c’è alcun motivo reale per cui un atterraggio di dischi volanti risulterebbe più credibile a New York che non a Lucca. Sarò anche in America, ma non sono di un passo più vicino al monte Olimpo.
Parallelamente a queste tendenze mainstream, per me ci sono stati la scoperta dei grandi autori e l’approfondimento del cinema americano del passato. Sul fronte autori, in primo luogo il grande filone italoamericano: Scorsese, Coppola, Cimino, De Palma; Kubrick, ovviamente, anche se lui si è sempre dichiarato di formazione e cultura europee; e poi, andando avanti, Eastwood, Mann, Burton prima che diventasse uno stanco clone di se stesso, Tarantino fino a Pulp Fiction. E di sicuro dimentico qualcuno di importante.
Anche nel cinema, come in quasi tutti i campi, c’è il fenomeno dei registi europei che hanno trovato in America la loro patria d’adozione, e cito solo Ridley Scott come esempio emblematico. La questione immigrazione si intreccia inestricabilmente anche a quella del cinema americano del passato, che nel periodo fra le due guerre ha visto una fortissima iniezione di autori provenienti dall’Europa: sto parlando di gente del calibro di Wilder, Lang, Von Stroheim, Lubitsch, Hitchcock.
Parlando di americani autoctoni, i nomi sono quelli di Capra, Ford, Hawks, Chaplin e innumerevoli altri. E buttando lì, oltre ai nomi, anche qualche tendenza tematica, cito con affetto la grande stagione del fantastico Universal negli anni trenta, il noir degli anni quaranta, la commedia sofisticata e la fantascienza degli anni cinquanta.
Insomma, c’è molto cinema americano nella mia formazione. Ma fortunatamente non è mai stato il solo, e forse neanche il principale, sempre controbilanciato da altre cinematografie e in particolare da quella italiana, che fino agli anni settanta non ha avuto (ahimé, adesso sì) niente da invidiare a nessuno. E questo, per quel che riguarda me, è più o meno quanto.
C’è poi la grande questione del mito americano. Uno dei più grandi successi del cinema a stelle e strisce, sociale e “politico” prima che artistico, è stato quello di aver imposto gli Stati Uniti come luogo privilegiato dell’immaginario. I dischi volanti non atterrerebbero mai a Lucca, dissero a suo tempo Fruttero e Lucentini; ma la verità è che ormai fatichiamo ad immaginarci qualunque tipo di storia che non sia ambientata in un’America immaginaria in cui tutto può accadere. New York, in particolare, è diventata lo scenario ideale, quasi uno sfondo neutro, in cui poter ambientare di tutto.
Per spiegare il ruolo assunto dell’America nell’immaginario collettivo, oltre alla pervasività della sua industria culturale, ci sono ovviamente anche buone ragioni di carattere storico, nel senso che è dalla seconda guerra mondiale che gli Stati Uniti hanno assunto un ruolo dominante nella storia del mondo. Tutto ciò che di importante è successo da allora riguarda o coinvolge in qualche modo gli Stati Uniti, ed è normale che questo si rifletta nell’immaginario.
C’è però una questione più generale, che riguarda la sospensione dell’incredulità nell’utilizzo di luoghi reali in ambito fiction.
Comincio con un esempio. Abituato come sono al contesto di una piccola città come Lucca, avrei difficoltà ad accettare una storia di fantasia, non necessariamente fantastica, ambientata lì. Perché mi sarebbe difficile scacciare l’impressione di “falsità”, come mi è successo nel caso del recente film di Pieraccioni. La storia sarebbe senz’altro più accettabile per gli altri italiani, ma probabilmente solo fino a un certo punto.
Perché un luogo reale si presti alla fiction è necessario che presenti dei “vuoti”, degli spazi ignoti da poter riempire con la fantasia, restando tuttavia perfettamente credibile. Per la sua stessa estensione, il continente americano si presta perfettamente a questo meccanismo. È facile immaginarci città fittizie, e crederci. Lo stesso vale per le megalopoli, New York in testa, i cui “spazi ignoti” sono direttamente proporzionali alle loro dimensioni. E tuttavia, anche tenendo conto di tutto questo, gli americani si sono abituati a un livello di “fictionalizzazione” dei loro luoghi che a prima vista sembrerebbe difficilmente accettabile. Presidenti immaginari (ve lo immaginereste da noi?), città devastate in ogni modo possibile, situazioni chiaramente irreali calate in contesti reali. Sarà che la loro visione del loro Paese è in qualche modo mitica, come già si diceva parlando di politica. Sarà che davvero credono che in America tutto sia possibile, fosse solo per il loro attuale ruolo storico. Sarà anche che fatti tragici come l’undici settembre, che se fosse stato immaginato in un film sarebbe stato considerato l’ennesima “americanata”, li confermano in questa convinzione. Sarà magari solo che si sono semplicemente abituati. Paradossalmente, sembra che i film americani siano quasi pensati più per noi che per loro, visto che per noi il “vuoto” da riempire è molto più grande. E se è vero che la loro visione del loro Paese è mitica, una parte di quel mito sono riusciti ad instillarla anche a noi. Tanto di cappello.
Quando ho visto dal vivo il folle agglomerato di torri a New York mi è stato facile capire come Stan Lee si sia potuto immaginare un personaggio come l’Uomo Ragno. Ma proprio vedendolo di persona è emersa lampante l’irrealtà del tutto, non tanto perché sia impossibile immaginarsi un supereroe che penzola con una ragnatela da un grattacielo all’altro, ma perché, se anche fosse, si muoverebbe agevolmente solo in un paio di zone di Manhattan, mentre per il resto dovrebbe prendere la metro come tutti. Visti dal vivo, questi luoghi mitizzati da decenni di fiction si sono rivelati luoghi reali, e, di conseguenza, normali. Non c’è alcun motivo reale per cui un atterraggio di dischi volanti risulterebbe più credibile a New York che non a Lucca. Sarò anche in America, ma non sono di un passo più vicino al monte Olimpo.
giovedì 30 agosto 2012
Los Angeles, day 3
E finalmente, la spiaggia. A San Francisco il mare era un’altra
cosa, ma qui ci sono le grandi spiagge che ci siamo abituati a vedere in TV. E
sì, ci sono i bagnini in stile Baywatch:
Il bagno non l’ho fatto che non ero attrezzato, ma l’acqua,
nonostante quello di fronte sia l’Oceano Pacifico e non il nostro piccolo
Mediterraneo, era calda ed invitante. Dall’altra parte dell’Oceano c’è il
Giappone, dove pure sono stato: tecnicamente, questo è quanto di più vicino a
un giro del mondo farò mai in vita mia.
La sabbia è fine, tipo quella di Viareggio, ma la spiaggia è
tutta libera ed è enorme: volendo, i losangeliani possono andare al mare quasi tutto
l’anno senza spostarsi e senza spendere un soldo. L’aspetto suburbano della
città continua anche in questi quartieri balneari: Venice, Santa Monica,
Malibu, da sud a nord e in ordine di crescente eleganza, coprono un range che,
in scala lucchese, va dalla darsena a Marina di Pietrasanta, senza arrivare a
Viareggio ma neanche a Forte dei Marmi.
Venice, che si chiama così perché all’inizio del novecento tentarono
davvero di costruire dei canali in stile Venezia, ospita anche Muscle Beach, un’area
attrezzata per bodybuilders famosa per i primi exploit di Arnold:
Dopo la spiaggia, un giretto veloce in downtown, il
quartiere centrale coi grattacieli. Visto che Los Angeles, in generale, si è sviluppata
in estensione ma non in altezza, il quartiere lo si vede apparire da lontano. Quando
è in vista funge da punto di riferimento, l’unico in questa immensa distesa urbana,
e in questo senso è una vista benvenuta. Dentro, invece, è il solito orribile
conglomerato di uffici rinchiusi in torri che, qui ancor meno che altrove, non
hanno alcun motivo di esistere.
Nel pomeriggio sono stato agli Studi Universal. Il tour in
quelli Warner è stato un’improvvisata, ma qui avevo comprato il biglietto già
da tempo, per cui doppia razione. In realtà Universal ha fatto le cose in modo
assai diverso: ha trasformato parte dei suoi studi in un parco a tema, con
attrazioni ispirate ai suoi film più famosi. Quella principale è proprio il
tour degli Studios, un giro di circa un’ora in cui si passa sì accanto ai
capannoni in cui stanno girando CSI,
ma soprattutto si ha un incontro ravvicinato con Lo Squalo e ci si trova in mezzo (letteralmente, visto che si
tratta di una proiezione 3d a 360 gradi) alla battaglia fra King Kong e i T-Rex
presa di peso dal film di Jackson. Fra gli altri set famosi, tutti in esterni,
il Bates Motel e la casa di Psyco (me
l’immaginavo più grande), il modello di Skull Island usato sempre per il King
Kong di Jackson, l’impressionante aereo schiantato al suolo da La guerra dei mondi di Spielberg, Wisteria
Lane di Desperate Housewives. Tutto molto
interessante, anche se, inteso come vero tour di uno studio cinematografico,
quello Warner era stato più approfondito. Intesa come attrazione di un parco a
tema, invece, niente da dire: trucchi e sorprese a go-go, incluso un finto
terremoto in metropolitana e un’inondazione su uno dei set di Jurassic Park. Ai dinosauri di Spielberg
era anche dedicata un’attrazione ad hoc, una classica montagna russa su acqua
in mezzo ad animatroni dei lucertoloni. Quella più nuova e pompata era tuttavia
una cavalcata in 3d interattivo in mezzo a un’incasinatissima battaglia dei Transformers.
Giornata conclusa, a chiudere il cerchio Warner-DC, con la
visione in Imax dell’ultimo Batman. E via, che siamo quasi alla fine.
martedì 28 agosto 2012
Comunicazione di servizio
Partirò da Los Angeles il 31, ma un po’ per la lunghezza del
volo (con scalo e sosta a new York), un po’ per il fuso orario, arriverò a Pisa
il 1° settembre alle 11 del mattino. Venitemi a prendere!
L’America e me, parte 7: la politica
Se c’è un aspetto che pensavo di ammirare del sistema
americano era quello politico, non tanto per i suoi reali contenuti, ma essenzialmente
per l’efficienza istituzionale. L’ammirazione istituzionale rimane, ma per il
resto sono di fronte a una di quelle situazioni ambigue in cui un tratto
psicologico apprezzabile dal punto di vista collettivo non lo è altrettanto dal
punto di vista individuale. La coincidenza con il mio viaggio della convention
repubblicana, che i media stanno coprendo estensivamente, mi ha fornito molti
spunti di riflessione.
Quello che mi pare di aver capito è che il popolo americano,
privo di identità storica e privo di identità etnica, abbia forgiato la sua
identità essenzialmente intorno al concetto-mito di Nazione, inteso come
sistema storico e istituzionale dotato di un destino universale, assunto con i
suoi valori ma anche con tutti i suoi aspetti propriamente mitologici. A livello
di percezione mitica della propria nazione gli Stati Uniti non sono molto distanti
dalla Roma antica o da altri imperi analoghi, tutti dotati di miti di
fondazione che ne giustificavano e legittimavano l’esistenza. Nessuno stato europeo,
considerato nella sua forma moderna, può vantare un mito di fondazione
altrettanto potente di quello americano.
Collegata a questa identità primaria, ce n’è una secondaria
data dall’appartenenza politica. Le due identità sono collegate, nel senso che entrambi
i principali partiti sono intimamente convinti di incarnare i valori della Nazione
e di fare quello che è meglio per Lei. Insomma, per riassumere: patriottismo e
partigianeria.
In Europa un patriottismo mitico-mistico come quello
americano è impossibile, e la partigianeria politica è legata più che altro a concrete
questioni di interessi personali o di classe, o semmai a appartenenze
ideologiche che non hanno a che fare con l’identità nazionale.
Patriottismo mitico e partigianeria identitaria, intesi a
livello collettivo, sono fattori potenti, e possono essere alla base di un
sistema efficiente e per certi versi ammirevole come quello americano. Ma a
livello personale, da Europeo, e in particolare da cinico Italiano (perché nessuno
è più cinico riguardo al potere e al concetto di nazione di noi Italiani) sono
tratti che non posso e non potrò mai condividere.
La convention repubblicana (ma non dubito che per i
democratici funzioni più o meno allo stesso modo) è un eccellente esempio di come
funzionino queste due identità collegate. Nei discorsi dei vari leader ci sono pochissimi contenuti politici veri, intesi come proposte
articolate su temi concreti. Piuttosto, ci sono molte dichiarazioni di
principio tese a dimostrare che la propria linea è quella buona per la Nazione,
mentre quella dell’avversario non lo è; e soprattutto, molte dichiarazioni tese
a dimostrare la capacità di leadership del candidato. C’è bisogno di un leader
forte, questo è il messaggio. Un leader che eserciti la sua leadership con autorevolezza e che, con mano sicura ma paterna, guidi la Nazione fuori da questi tempi
difficili. Per veicolare questo messaggio si ricorre a qualunque espediente di
marketing politico, puntando sull’emotività dell’elettore più che sulla sua
razionalità, sulla capacità di ispirare fiducia più che di proporre soluzioni. Tutto
il mondo è paese, si dirà, ma è questione di gradi e di modi. Il modi e i
contenuti della comunicazione politica americana sono essenzialmente quelli
adottati da Berlusconi, che a questi si è ispirato. Lui di suo ci ha aggiunto l’aspetto
buffonesco e il disprezzo per la legge, e chiaramente non si appella alla
Nazione ma a un ideale puramente individualistico: vi prometto che potrete
farvi i cazzi vostri, così come me li faccio io. Ma questo sarebbe tutto un
altro discorso, e questa non è la sede adatta.
L’America e me, parte 6: i fumetti
Visto che siamo in tema nerd, non posso esimermi dall’affrontare
brevemente anche questo aspetto. Il mio rapporto col fumetto americano è
ambivalente. Distinguo tre filoni: le strisce, i comic book della major, le
graphic novel.
Sul primo fronte, niente da dire. Senza stare a citarle
tutte, sono tantissime le strisce, vecchie e nuove, che per me sono state
importanti: i Peanuts, Calvin & Hobbes, Pogo, Doonesbury, Dilbert, Wizard
of Id. Oserei dire che la striscia è la forma di fumetto più genuinamente
americana, legata al boom della stampa quotidiana di cui il buon William
Randolph Hearst, di cui ho già parlato, è stato uno dei più discussi campioni. Per
inciso, pare che lui fosse un appassionato e che abbia supportato strisce oggi
considerate classiche ma all’epoca non proprio popolarissime fra il pubblico di
lettori, come il Krazy Kat di Herriman.
Una menzione particolare se la merita il Mickey Mouse di
Gottfredson, quello degli anni trenta: non solo una striscia che mescola in
modo magistrale avventura e umorismo, ma la più perfetta incarnazione della
parte migliore dello spirito americano: intraprendente, generoso, ottimista
nonostante tutto, e nonostante la depressione che in quegli anni devastava la
vita reale di milioni di persone. Gli anni trenta, ormai si sarà capito, sono
un periodo della storia americana che amo particolarmente, più dei “ruggenti
anni venti” che li hanno preceduti. Sarà che la depressione fa da contraltare
con il necessario lato oscuro, ma quelli sono stati gli anni d’oro di
Hollywood, con l’avvento del sonoro e i grandi divi, gli anni d’oro del fumetto
avventuroso, gli anni dell’art deco, gli anni dei primi, titanici grattacieli. Topolino,
quel Topolino, ancora a metà fra mondo rurale e grande metropoli, è l’incarnazione
perfetta di tutto questo. E rimane una fedele cartina di tornasole della
società americana anche dopo, nel successivo imborghesimento.
Parlare di comic book significa parlare di supereroi, e devo
dire che con loro ho sempre avuto un rapporto controverso, non perché li
considerassi improbabili, ma perché, fin da ragazzino, mal sopportavo il
concetto di continuity. Poi
intendiamoci, i fondamentali li ho letti e ci sono alcune versioni adulte di
personaggi come Batman alle quali sono particolarmente affezionato. Ma qui
sconfiniamo nella categoria delle graphic
novel, mentre confesso senza problemi di non essere mai stato un appassionato
lettore di fumetto seriale americano. Escludendo, e lo infilo qui anche se non
sono supereroi, quella straordinaria commedia umana che sono stati i paperi di
Barks.
Sulle graphic novel,
ammiro moltissimo Eisner e non discuto il suo ruolo storico fondamentale, ma come
narratore non l'ho amato altrettanto. Ho amato invece Spiegelman, Miller al suo
meglio, Chadwick, i fratelli Hernandez, soprattutto Gilbert. Poi ci sarebbero gli
europei, soprattutto inglesi, che il fumetto americano ha adottato, come Moore
e Gaiman. Ma l’obiettivo qui era raccontare in breve il mio personale rapporto con
il fumetto americano, non scrivere un trattato.
Los Angeles, day 2: sorprese
Il secondo giorno a Los Angeles ha assunto una piega
inaspettata. Salta fuori che il buon Sandy Resnick, che ho incontrato alla DC a
New York, mi ha organizzato un tour anche alla DC Entertainment, qui a Burbank.
Arrivo, mi accredito, faccio il mio breve tour in compagnia della simpatica
Brandy, poi incontro i boss, e nostri futuri ospiti, Jim Lee e Geoff Johns. Geoff
in particolare si mostra gentilissimo e mi organizza un VIP tour nei Warner
Studios. Alè.
Salta fuori che gli studi sono subito accanto all’edificio
della DCE, che è controllata dalla Warner. Salta anche fuori che i Warner
Studios non si sono spostati da Hollywood, sono sempre stati qui. E sono proprio
quei capannoni che si vedono all’inizio di tutti i film Warner. C’è anche la
famosa water tower che si vede all’inizio
degli Animaniacs e che è diventata un po' il simbolo degli Studios:
Il tour, manco a dirlo, è molto interessante. I vari
capannoni sono tutti dedicati a una singola produzione, film o serie TV che
sia. All’ingresso di ognuno c’è un elenco di cosa è stato realizzato lì dentro.
Questo, intitolato a ER che è stato girato qui per ben 16 anni consecutivi, è
stato costruito negli anni venti e ha visto anche la realizzazione di quel piccolo,
irrilevante film (per quanto criticamente sopravvalutato) che è Casablanca.
Ovviamente dentro non abbiamo potuto fotografare niente, ma
ci hanno fatto vedere i set della sitcom cult Big Bang Theory e quelli dismessi di
un classico degli anni novanta come Friends. Ma soprattutto, un piccolo museo
interno pieno di costumi e prop famosi (di nuovo niente foto) e un’esposizione
di veicoli. E qui, per Dio, foto sì:
Notevoli anche gli scorci cittadini finti usati per gli
esterni:
Visto che siamo in tema nerd, anche le due sedi della DC
ospitano materiale interessante: a LA ci sono i costumi di Heat Ledger per il
Joker e quello di Christopher Reeve per il primo Superman:
Questa statua di Clark Kent, invece, è nella hall della DC di New York:
Los Angeles
Los Angeles, come ormai questo viaggio mi ha abituato, mi
accoglie con una faccia ancora diversa di questo sfaccettato ritratto americano.
Si sente dire spesso che Los Angeles è una brutta città, o che è il primo vero
esempio di megalopoli postmoderna, senza centro, senza punti di riferimento,
senza senso. E tuttavia questo non basta, per capire davvero va vista dal vivo.
Ed io, da quel che ho visto finora, comincio a capire. Los Angeles è un’enorme
periferia suburbana tenuta insieme da un tessuto connettivo di strade e
autostrade che la attraversano in ogni direzione, percorse da un traffico
pulsante, continuo, ossessivo ma mai caotico, scandito dal ritmo implacabile
dei semafori. Innavigabile senza una mappa o un gps, questo enorme labirinto stradale
si affaccia su un anonimo panorama di ville o villette residenziali, sulle
strade minori, o di palazzine ad uso commerciale o servizi, su quelle più
grandi. Le autostrade, vere e proprie tangenziali interne che corrono sopraelevate
al tessuto urbano, fanno ovviamente storia a sé, con il loro spropositato
numero di corsie e gli svincoli che si intrecciano come figure astratte. Le
strade larghe, spesso affiancate da palmizi, e gli edifici bassi fanno sì che
non si abbia mai quel senso di straniamento che si porta dietro l’altra grande
“megalopoli postmoderna” che è Tokyo. Peccato che il sole, che qui batte in
modo pressoché costante per tutto l’anno, sia spesso velato non dalla nebbia,
come a San Francisco, ma dallo smog degli innumerevoli tubi di scappamento.
I luoghi “glamour”, come Beverly Hills e Bel Air, sono
ugualmente anonimi, per quanto spalmati con un’evidente patina di ricchezza che
è l’unico vero tratto distintivo. Rodeo Drive, che è la via più famosa di
Beverly Hills, è un susseguirsi di boutique di lusso ospitate in bassi edifici cubici,
quasi fosse un outlet di provincia:
L’unico fremito di creatività lo dà Dior, che addobba il suo
cubo (ma in realtà solo perché il negozio è in fase di ristrutturazione) come
una borsa gigante:
In Rodeo Drive appare anche quello che è il monumento più
simbolicamente appropriato che si possa immaginare, un manichino da grandi
magazzini in versione sbrilluccicante, un corpo senza testa che sembra un inno alla
vacuità del lusso. Se l’artista era ironico e consapevole di quel che faceva, è
un genio assoluto. Stranamente, sembra che gli abitanti del luogo non colgano
la sottile ironia.
Di Sunset Boulevard, il famoso Viale del Tramonto di
wilderiana memoria, dirò che, semaforo per semaforo, l’ho percorso in macchina
quasi per intero, e che a parte i cartelloni pubblicitari più grandi sembra di
essere a Sant’Anna, con tutto il rispetto per la Sarzanese e i suoi dintorni.
E Hollywood? Hollywood è ormai un quartiere da bonificare.
Gli studios notoriamente non sono più qui, tutti spostatisi verso Burbank, un
altro sobborgo di LA. Quello che resta è ormai rivolto solo ai turisti, ed è
animato da una fauna umana pittoresca se non, addirittura, vagamente
inquietante. Tristezza infinita, in particolare, di fronte ai pezzentissimi
cosplayer prezzolati che cercano di accalappiare l’ignaro turista per la foto
di rito.
La Walk of Fame è notoriamente una baggianata, visto che le
star pagano per avere la loro bella stella su Hollywood Boulevard. Ne ho
fotografata solo una, di uno dei pochi divi che rispetto e che sicuramente NON
ha pagato:
Il glorioso Chinese Theatre, con la sua estetica da vecchia
Hollywood anni trenta, è invece interessante nella sua improntitudine. Di
fronte, le famose impronte dei divi impresse su cemento, che sono un’altra cosa
rispetto alla Walk of Fame ma che si sono rivelate ugualmente deludenti. Anche
qui, ne fotografo solo una degna di rispetto.
E la scritta? La famosa scritta Hollywood, icona della
fabbrica dei sogni? Eccola lassù, su un sobborgo che, non fosse per le palme al
posto degli abeti, potrebbe essere San Filippo.
lunedì 27 agosto 2012
El Camino Real
Un imprevisto e piacevole fil rouge di questa discesa californiana è stato seguire a ritroso
le tappe del Camino Real, il percorso compiuto dai missionari francescani,
inviati dalla Spagna, per colonizzare l’area e convertire i nativi. Nel corso
della loro opera missionaria i francescani fondarono 21 missioni lungo tutta la
costa della California, e gli insediamenti che ne derivarono furono i primi
seri tentativi compiuti dagli Europei per stabilirsi sulla costa occidentale. Gli
edifici che ne sono risultati, in particolare le chiese, sono di conseguenza i
più antichi di tutta la California. Oggi, oltre al valore religioso, le
missioni hanno assunto un valore identitario molto forte, tanto che l’intera comunità
si riconosce in esse. In quanto luoghi di interesse storico, sono anche state
dichiarate monumenti nazionali. Lungo tutta la 101, l’autostrada che percorre la
California da nord a sud, sono state piazzate a intervalli regolari delle
campanelle appese a una specie di bastone da pellegrino, come ricordo del Camino
Real.
Di missioni io ne ho visitate due: quella di Carmel, di cui
ho già parlato, era la principale, tenuta come sede propria dal fondatore delle
prime nove, Fra Junipero Serra, che infatti è qui sepolto. Junipero Serra,
considerato in California una specie di padre della patria, è stato beatificato
da Giovanni Paolo II nel 1988, e infatti c’è una bella lapide che ricorda la
sua visita qui.
L’altra missione che ho visitato è quella di Santa Barbara,
un edificio decisamente più neoclassico di quello di Carmel, ma tuttavia
interessante per la semplicità costruttiva ai limiti dell’ingenuità, risultato dell’intervento
dei locali indiani Chumash, che la costruirono materialmente.
Di grande suggestione anche l’interno, in stile spagnolo:
Tutto questo succedeva in California negli stessi anni in
cui veniva costruita casa nostra a Gello. Il che non vuol dire nulla, ma aiuta
a mettere le cose in prospettiva.
On the road, day 3: l’Hearst Castle
A San Simeon, più o meno a metà strada fra San Francisco e
Los Angeles, c’è il castello di William Randolph Hearst. Hearst fu il magnate
della carta stampata a cui si ispirò Orson Welles per Quarto Potere, e questo per
ora basti a dare un’idea di che tipo di personaggio fosse. In età già piuttosto
avanzata, Hearst comincia a costruire questo castello sulle aspre colline della
California, in collaborazione con l’architetto Julia Morgan, in un progetto che
non sarà mai del tutto completato e che li vedrà impegnati per 28 anni, fino
alla morte di lui nel 1951. Oggi l’Hearst Castle è aperto al pubblico e
visitabile, ed è una visita di grande interesse.
Il castello nacque come una specie di casa-vacanza, un luogo
da sogno dove passare giorni di relax (ma lui continuava a lavorare, gestendo il
suo impero dai suoi appartamenti privati) in compagnia dei suoi ospiti, tutti i
personaggi più in vista di quegli anni: divi del cinema come Chaplin e Gable,
scrittori come Fitzgerald, produttori cinematografici e ricchi industriali suoi
pari, persino capi di stato. Il castello doveva anche servire ad ospitare la
sua raccolta di antichità, che era andato collezionando per tutta la vita. Non solo:
il castello stesso doveva essere la summa di quell’arte mediterranea, classica
e rinascimentale, che Hearst tanto amava. Il risultato è al tempo stesso affascinante
e surreale.
Architettonicamente, il progetto è sbagliato in ogni modo possibile. La facciata è ispirata a quella di una chiesa spagnola, con torri in stile moresco e un portale gotico, in parte autentico, in parte fasullo. Dentro, una vasta collezione di opere d’arte si piega a diventare puro elemento d’arredo: arazzi rinascimentali su disegni di Giulio Romano, uno barocco su disegno di Rubens, soffitti a cassettoni italiani e spagnoli, cori di chiesa alle pareti, caminetti gotici, porcellane di Limoges, un Canova originale, dipinti e statue medievali e rinascimentali, e chi più ne ha più ne metta. Fuori, statue e sarcofagi romani, una piscina da sogno con un vero frontone di un vero tempio greco, un giardino bellissimo, uno zoo (che ora non c’è più) con centinaia di animali esotici lasciati in libertà, liberi di scorazzare nella vasta tenuta. Non c’è un solo angolo, dentro o fuori l’abitazione principale o gli adiacenti cottage per gli ospiti, che non sia zeppo all’inverosimile di oggetti d’arte accatastati alla rinfusa, al solo scopo di creare un effetto di stupore incurante di ogni coerenza. Essenzialmente, è un grande parco a tema sull’arte classica e rinascimentale, e se era lo stupore l'obiettivo che si voleva ottenere, devo dire che è stato centrato in pieno. Il luogo trasmette l’opulenza estrema dei grandi ricchi americani degli anni venti e trenta, e dà un’immagine di una società dorata e ancora inevitabilmente provinciale, che cerca tuttavia disperatamente di darsi un tono, con risultati grotteschi.
Architettonicamente, il progetto è sbagliato in ogni modo possibile. La facciata è ispirata a quella di una chiesa spagnola, con torri in stile moresco e un portale gotico, in parte autentico, in parte fasullo. Dentro, una vasta collezione di opere d’arte si piega a diventare puro elemento d’arredo: arazzi rinascimentali su disegni di Giulio Romano, uno barocco su disegno di Rubens, soffitti a cassettoni italiani e spagnoli, cori di chiesa alle pareti, caminetti gotici, porcellane di Limoges, un Canova originale, dipinti e statue medievali e rinascimentali, e chi più ne ha più ne metta. Fuori, statue e sarcofagi romani, una piscina da sogno con un vero frontone di un vero tempio greco, un giardino bellissimo, uno zoo (che ora non c’è più) con centinaia di animali esotici lasciati in libertà, liberi di scorazzare nella vasta tenuta. Non c’è un solo angolo, dentro o fuori l’abitazione principale o gli adiacenti cottage per gli ospiti, che non sia zeppo all’inverosimile di oggetti d’arte accatastati alla rinfusa, al solo scopo di creare un effetto di stupore incurante di ogni coerenza. Essenzialmente, è un grande parco a tema sull’arte classica e rinascimentale, e se era lo stupore l'obiettivo che si voleva ottenere, devo dire che è stato centrato in pieno. Il luogo trasmette l’opulenza estrema dei grandi ricchi americani degli anni venti e trenta, e dà un’immagine di una società dorata e ancora inevitabilmente provinciale, che cerca tuttavia disperatamente di darsi un tono, con risultati grotteschi.
Il bello è che tutta la visita, con corredo di film Imax
propedeutico, è impostata sull’eccellenza architettonica del castello e sul
tema, tutto americano, del “sogno da realizzare”. Questa dimora, ci viene
detto, era il sogno di una vita di un uomo che, fin da bambino, era stato
affascinato dalle meraviglie che aveva visto nei suoi viaggi in Europa, e voleva
creare qualcosa che fosse alla loro altezza. Che tenerezza, nevvero? Anche voi,
cari visitatori, traete ispirazione da questa storia edificante per realizzare
i vostri sogni.
Sì, mo’ me lo segno.
E tuttavia, l’Hearst Castle merita di essere preservato,
fosse solo come testimonianza di quello stile che qui e ora battezzo Californian Theme Park Style, che nelle
sue motivazioni, nelle sue realizzazioni, e infine nella lettura ideologica che
ne viene data oggi, è capace di gettare una luce sulla mentalità americana ben più
penetrante di qualunque ponderoso saggio sull’argomento.
domenica 26 agosto 2012
On the road, day 2
La costa della California, da Monterey giù fino a San
Simeon, è assolutamente meravigliosa. Il tempo è rimasto grigio, ma questo se
possibile ha aggiunto fascino al paesaggio. Scogliere da una parte, colline con
bassa vegetazione intervallata da tratti boscosi dall’altra. E la strada, la
California State 1, a dipanarsi nel mezzo, lunga e tortuosa, quasi ipnotica. Il
panorama è incredibile, e la fauna che si vede dai vari belvedere è da mozzare
il fiato. Uccelli, foche e leoni marini, ma almeno tre volte più grandi di
quelli visti a San Francisco: qui ci sono anche dei maschi adulti, bestioni
grossi come automobili.
A Carmel-by-the-sea, sotto Monterey, mi sono fermato a
quella che è stata la principale fra le 21 missioni spagnole in California,
quella appunto di Carmel. Fondata dai francescani a fine settecento, è una
piccola chiesa di grande fascino, con una semplice facciata coronata a
semicerchio, un piccolo rosone a stella e due basse torri asimmetriche ai lati. Finalmente, un luogo dove mi sento a casa.
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