sabato 1 settembre 2012

La fine del viaggio

E infine ci siamo. America, questo è quel che ti dovevo, questo è quel che hai avuto. Il conto in sospeso è saldato. Non c’è alcun bilancio complessivo da trarre, al di là di tutto quello che ho scritto fin qui. È stato un viaggio lungo e insieme brevissimo, impegnativo sia fisicamente che mentalmente. Ma è stato un viaggio pieno di stimoli, e questo mi basta. Se tornerò, e spero di sì, sarà perché qui avrò qualcosa da fare, non più come turista.

Il cuore del sistema

Disneyland. Non poteva finire che qui.
Che si ceda o meno al fascino del mondo fantastico creato da Walt Disney (io dopo un paio d’ore di stupore ho cominciato ad avvertire una certa nausea, come dopo un’indigestione di zucchero filato), è innegabile che il parco vada visto. Nel Paese in cui tutto si qualifica per la sua dimensione “di massa”, Disneyland è l’apoteosi del concetto di divertimento massificato, offerto indistintamente a tutti, grandi e piccini, uomini e donne, ricchi e poveri. A Disneyland, il luogo più felice della terra, la felicità è un obbligo.
Disneyland non è soltanto una raccolta di attrazioni, una specie di grande luna park. Disneyland è un mondo, curato in ogni minimo dettaglio. Una volta entrati, è impossibile girare lo sguardo in una qualsiasi direzione senza imbattersi in un’attrazione, in una scenografia, in uno dei centinaia di addetti, figuranti o meno, che sono lì con l’unico obiettivo di rendere piacevole la tua visita. Perché problemi e disagi, per quanto minimi, non appartengono al mondo perfetto del parco. Disneyland non vuole tanto che tu partecipi, vuole che tu ci creda. Un unico biglietto, pagato il quale puoi fare tutto quello che vuoi; tantissime cose da fare e da vedere; una gestione intelligente delle file, che ti permette di prenotare il tuo posto e di tornare a colpo sicuro; un gran numero di occasioni d’acquisto supplementari (cibo e bevande, souvenir, gadget a tema di tutti i tipi); strutture ricettive faraoniche, di livello aeroportuale; un tram che a ciclo continuo ti porta dai parcheggi all’ingresso del parco e viceversa; addirittura i parcheggi per i passeggini ad ogni attrazione, sorvegliati da appositi addetti. E se non ce l’hai, il passeggino, e ne hai bisogno, te lo danno loro.
Il parco è diviso in aree tematiche, in modo che ognuno può trovare quello che fa per lui. Le attrazioni principali sono invariabilmente delle specie di montagne russe o dei tour virtuali interattivi, ma niente di troppo estremo, che devono piacere a tutti. Quello che perdono in adrenalina lo recuperano nella cura dell’ambientazione e negli effetti speciali, per cui l’attrazione dedicata a Indiana Jones o quella di Guerre Stellari diventano delle esperienze indimenticabili. Almeno in teoria, che io dopo un po’ ho cominciato a confondere tutto.
Disneyland è la perfetta incarnazione dell’ideologia popolaresca di Walt Disney, che non è mai stato un artista ma piuttosto un grande impresario, una specie di Barnum del cinema. Col suo politicamente corretto ante litteram, con la sua continua ricerca del minimo comune denominatore, col suo pragmatismo da imprenditore e la sua capacità di pensare in grande, Disney è stato uno dei grandi interpreti dello spirito americano. Venire qui e non visitare Disneyland, che il parco piaccia o meno, significa privarsi di una delle incarnazioni più pure di quello spirito, di una chiave di lettura quasi indispensabile.





L’America e me, parte 8: il cinema e il mito americano

Il cinema l’ho tenuto appositamente per ultimo, perché qui il discorso si fa complesso e ci sono vari aspetti da considerare. In primo luogo c’è il mio rapporto personale col cinema americano. C’è poco da fare: tutti noi, in tutto il mondo occidentale, da più di mezzo secolo siamo esposti in modo importante al cinema americano. Per me non è stato diverso. I cartoni Disney, da bambino; da ragazzino, che per me ha coinciso con il periodo a cavallo fra i settanta e gli ottanta, il cinema della “nuova Hollywood”, in gran parte a misura di adolescente: Spielberg e i suoi adepti (Zemeckis, Dante e parecchi altri minori), Lucas con la saga di Guerre Stellari, Landis prima che si rincoglionisse, tutta la scena fanta-horror, dominata dalla figura gigantesca di John Carpenter. Agli ottanta dominati dallo spielberghismo sono seguiti i novanta del cinema più muscolare di James Cameron e dei suoi adepti, i vari McTiernan, Bigelow e compagnia. E i duemila, sempre più frammentati e in cui, oltre all’individuazione sempre più marcata del pubblico di teenager come target principale, si è assistito al proliferare del fenomeno di remake e reboot, quasi che le buone idee fossero esaurite e si sentisse il bisogno di puntare sul sicuro.
Parallelamente a queste tendenze mainstream, per me ci sono stati la scoperta dei grandi autori e l’approfondimento del cinema americano del passato. Sul fronte autori, in primo luogo il grande filone italoamericano: Scorsese, Coppola, Cimino, De Palma; Kubrick, ovviamente, anche se lui si è sempre dichiarato di formazione e cultura europee; e poi, andando avanti, Eastwood, Mann, Burton prima che diventasse uno stanco clone di se stesso, Tarantino fino a Pulp Fiction. E di sicuro dimentico qualcuno di importante.
Anche nel cinema, come in quasi tutti i campi, c’è il fenomeno dei registi europei che hanno trovato in America la loro patria d’adozione, e cito solo Ridley Scott come esempio emblematico. La questione immigrazione si intreccia inestricabilmente anche a quella del cinema americano del passato, che nel periodo fra le due guerre ha visto una fortissima iniezione di autori provenienti dall’Europa: sto parlando di gente del calibro di Wilder, Lang, Von Stroheim, Lubitsch, Hitchcock.
Parlando di americani autoctoni, i nomi sono quelli di Capra, Ford, Hawks, Chaplin e innumerevoli altri. E buttando lì, oltre ai nomi, anche qualche tendenza tematica, cito con affetto la grande stagione del fantastico Universal negli anni trenta, il noir degli anni quaranta, la commedia sofisticata e la fantascienza degli anni cinquanta.
Insomma, c’è molto cinema americano nella mia formazione. Ma fortunatamente non è mai stato il solo, e forse neanche il principale, sempre controbilanciato da altre cinematografie e in particolare da quella italiana, che fino agli anni settanta non ha avuto (ahimé, adesso sì) niente da invidiare a nessuno. E questo, per quel che riguarda me, è più o meno quanto.

C’è poi la grande questione del mito americano. Uno dei più grandi successi del cinema a stelle e strisce, sociale e “politico” prima che artistico, è stato quello di aver imposto gli Stati Uniti come luogo privilegiato dell’immaginario. I dischi volanti non atterrerebbero mai a Lucca, dissero a suo tempo Fruttero e Lucentini; ma la verità è che ormai fatichiamo ad immaginarci qualunque tipo di storia che non sia ambientata in un’America immaginaria in cui tutto può accadere. New York, in particolare, è diventata lo scenario ideale, quasi uno sfondo neutro, in cui poter ambientare di tutto.
Per spiegare il ruolo assunto dell’America nell’immaginario collettivo, oltre alla pervasività della sua industria culturale, ci sono ovviamente anche buone ragioni di carattere storico, nel senso che è dalla seconda guerra mondiale che gli Stati Uniti hanno assunto un ruolo dominante nella storia del mondo. Tutto ciò che di importante è successo da allora riguarda o coinvolge in qualche modo gli Stati Uniti, ed è normale che questo si rifletta nell’immaginario.
C’è però una questione più generale, che riguarda la sospensione dell’incredulità nell’utilizzo di luoghi reali in ambito fiction.
Comincio con un esempio. Abituato come sono al contesto di una piccola città come Lucca, avrei difficoltà ad accettare una storia di fantasia, non necessariamente fantastica, ambientata lì. Perché mi sarebbe difficile scacciare l’impressione di “falsità”, come mi è successo nel caso del recente film di Pieraccioni. La storia sarebbe senz’altro più accettabile per gli altri italiani, ma probabilmente solo fino a un certo punto.
Perché un luogo reale si presti alla fiction è necessario che presenti dei “vuoti”, degli spazi ignoti da poter riempire con la fantasia, restando tuttavia perfettamente credibile. Per la sua stessa estensione, il continente americano si presta perfettamente a questo meccanismo. È facile immaginarci città fittizie, e crederci. Lo stesso vale per le megalopoli, New York in testa, i cui “spazi ignoti” sono direttamente proporzionali alle loro dimensioni. E tuttavia, anche tenendo conto di tutto questo, gli americani si sono abituati a un livello di “fictionalizzazione” dei loro luoghi che a prima vista sembrerebbe difficilmente accettabile. Presidenti immaginari (ve lo immaginereste da noi?), città devastate in ogni modo possibile, situazioni chiaramente irreali calate in contesti reali. Sarà che la loro visione del loro Paese è in qualche modo mitica, come già si diceva parlando di politica. Sarà che davvero credono che in America tutto sia possibile, fosse solo per il loro attuale ruolo storico. Sarà anche che fatti tragici come l’undici settembre, che se fosse stato immaginato in un film sarebbe stato considerato l’ennesima “americanata”, li confermano in questa convinzione. Sarà magari solo che si sono semplicemente abituati. Paradossalmente, sembra che i film americani siano quasi pensati più per noi che per loro, visto che per noi il “vuoto” da riempire è molto più grande. E se è vero che la loro visione del loro Paese è mitica, una parte di quel mito sono riusciti ad instillarla anche a noi. Tanto di cappello.

Quando ho visto dal vivo il folle agglomerato di torri a New York mi è stato facile capire come Stan Lee si sia potuto immaginare un personaggio come l’Uomo Ragno. Ma proprio vedendolo di persona è emersa lampante l’irrealtà del tutto, non tanto perché sia impossibile immaginarsi un supereroe che penzola con una ragnatela da un grattacielo all’altro, ma perché, se anche fosse, si muoverebbe agevolmente solo in un paio di zone di Manhattan, mentre per il resto dovrebbe prendere la metro come tutti. Visti dal vivo, questi luoghi mitizzati da decenni di fiction si sono rivelati luoghi reali, e, di conseguenza, normali. Non c’è alcun motivo reale per cui un atterraggio di dischi volanti risulterebbe più credibile a New York che non a Lucca. Sarò anche in America, ma non sono di un passo più vicino al monte Olimpo.