Sull’autobus per Washington, appena emerso nel New Jersey
dal tunnel che passa sotto l’Hudson, mi si offre un’ultima vista di Manhattan
dalla terraferma. Sembra una specie di formazione rocciosa, qualcosa di
forgiato nelle viscere della terra che sia poi emerso spinto da un’immane forza
geologica. O una gigantesca fortezza, serrata fra mura impenetrabili. Un’immagine
completamente diversa da quella di cui si gode venendo in nave dalla baia,
specie la sera, quando la statua della libertà ti accoglie col suo messaggio di
speranza e ogni luce ha il valore di una promessa.
Su questo versante del fiume, il paesaggio è completamente
diverso. Di colpo gli edifici sono bassi, e si diradano velocemente mentre si
avanza in autostrada, un lungo serpentone di auto che si svolge verso sud,
tutto circondato da alberi. Il terreno è pianeggiante, e questo significa che
d’improvviso è tutto cielo: cielo, sole, nuvole monumentali, alberi, fiumi
solenni attraversati da lunghi ponti. Sento di poter respirare più liberamente.
Il contrasto con New York è stridente, e ancora più evidente è il valore
simbolico, anche visivo, di questa città che è diversa da qualunque altra e che
sembra quasi non appartenere a questo mondo. New York è un simbolo, un perno,
un punto di riferimento per tutto il territorio circostante e forse per
l’intero continente, non una città ma La Città.
New York ha raccontato se stessa in molti modi, tutti a loro
modo mitici. C’è la New York alla moda, dalla vita sociale spumeggiante, la New
York della Fifth Avenue, di Tiffany, dello shopping, di Sex & the City; ma questo
è un mito a cui sono probabilmente più sensibili le signore, e a loro lo
lascio. C’è la New York intellettual-chic, alla Woody Allen, e se esiste l’ho
respirata per un attimo solo attorno al Greenwich Village; c’è la New York sede
della grande finanza che tiene in mano il mondo col suo potere spietato; c’è la
New York centro propulsore delle arti contemporanee, pur se in versione
mercantilizzata; c’è la New York simbolo di degrado urbano, celebrata in
innumerevoli film dagli anni 70 in avanti. Se dovessi indicare qual è il mito a
cui più che altri oggi associo New York, è quello della Città come descritta in
molta fantascienza, un conglomerato gigantesco e totalizzante, non
necessariamente degradata ma inquietante, insieme oscura e luminosa, meta
ambita da molti e aborrita da altri, agognata e temuta, amata e odiata, simbolo
al tempo stesso di speranza e di oppressione.
E insomma cosa penso, infine, di New York? Che è una città
con una sua identità fortissima. La guardo con un rinnovato rispetto, e persino
con una certa reverenza. L’energia che la pervade è evidente, nella folla
cosmopolita che la anima come negli edifici che ne sono la plastica
rappresentazione. Ma è un’energia che ha un lato oscuro, quasi psicotico. Ci
potrei vivere? All'occorrenza sì, magari in luoghi un po’ più tranquilli di
Manhattan, come Brooklyn o Staten Island. La trovo affascinante? Sì, per molti
motivi diversi. Ma la ammiro? No, questo non posso proprio dirlo.
Chiara: ma del cibo cosa ci dici?
RispondiEliminaChiara: mandaci delle foto anche di quello. Piero se ne lamenta un pò dice che è tutta carne, tanti grassi, tutto extra large e sempre le solite cose....
RispondiEliminaPenso che New York non sia molto adatta a me,ma mi ha fatto piacere conoscerla un po'!
RispondiEliminaNon è tanto adatta neanche a me, se è per questo, ma sono contento di averla visitata. Quanto al cibo per ora me la cavo bene: a NY avevamo una casa per cui la sera cucinavamo, il giorno mi portavo dietro dei tramezzini. Bene anche a Washington, con un bel supermarket che vendeva anche piatti pronti da consumare sul posto.
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